
Non ci piove: l'eurodance è stata l'unica, plausibile forma di punk che gli anni novanta hanno saputo regalarci, e finalmente qualcuno se ne sta rendendo conto. Sia chiaro, punk inteso come musica ma soprattutto come attitudine, sprezzo delle regole e delle convenzioni, voglia di uscire dagli schemi e ribellarsi. Non come una cresta ed un paio di borchie tanto per darsi un tono.
Come il punk nel '77 inglese ha avuto il suo boom in virtù del suo rappresentare una risposta al progressive e al rock elefantiaco dei settanta (e al loro corredo di gente che si prendeva troppo sul serio, partiture molto complesse suoni manieristici, masturbazioni mentali) e veicolava un messaggio totalmente opposto a ciò che lo ha preceduto (e quindi tutti potevano suonare tutto senza saper suonare, bastava avere rabbia verso il sistema e tanta faccia tosta, il resto non contava), l'eurodance ha avuto il proprio boom nel periodo in cui andavano per la maggiore cose come grunge e punk californiano, e quindi ha veicolato un messaggio di pace e amore, esortazioni a far festa e divertirsi con sincerità in risposta alla negatività (e per certi versi, all'autolesionismo) del grunge e al divertimento a buon mercato di gruppi come i Green Day e gli Offspring. In poche parole: una sorta di reazione mentale a ciò che al momento imperava nel mercato musicale e, di riflesso, nella mentalità dei giovani, Come nel punk '77, le produzioni erano facili e dozzinali, molto spesso tutte simili tra loro. Non importava essere troppo raffinati, contava essere concreti (e magari vedersi staccare un altro sostanzioso assegno dalla casa discografica). Le chitarre erano sostituite da sintetizzatori ed altre diavolerie elettroniche, ma la semplicità e la ripetitività dei riff erano le medesime (con rabbia e violenza sostituite da melodie che si stampavano nel cervello e non ne uscivano più). In breve tempo l'eurodance è divenuta fenomeno di massa (grazie anche al supporto di specifici programmi radio) e si è arrivati ad un livello in cui ogni settimana uscivano miriadi di produzioni che riscuotevano successo sempre crescente. Come nel primo punk i progetti duravano poco nel tempo, e gira e rigira le facce dietro agli stesso erano sempre le stesse: bastava dare un' occhiata alle classifiche per rendersi conto che dietro ai tormentoni di successo c'erano sempre gli stessi team di produttori, coadiuvati da vocalist diversi a seconda del progetto. E, a dire il vero, magari il nome del vocalist cambiava, ma la sostanza restava la stessa. Ma mentre nel punk '77 c'era chi suonava la chitarra in un gruppo, cantava in un altro e magari suonava la batteria in un altro ancora, qui si andava davvero oltre: le stesse vocalist lavoravano in studio su progetti diversi (vedi Corona e Playahitty) e, al momento delle esibizioni live, ci si affidava al playback e a frontwomen senza voce in capitolo che non avevano nulla a che vedere con chi aveva realmente inciso il brano. Più punk del punk, molto più alternativa di ciò che all'epoca si proponeva come l'alternativa. Semplicemente, per andare contro certe logiche le cavalcava e sfruttava al massimo tutti i meccanismi più biechi dell'industria musicale, quasi come per combatterli dall'interno.
Ed ovviamente c'è molta similitudine tra i due generi musicali anche in ciò che avvenne al momento del declino: mentre il punk '77 venne rimpiazzato dall'hardcore (più fisico e violento) e dalla new wave (più cerebrale e ragionata), l'eurodisco venne in breve rimpiazzata da progressive (più cerebrale e ragionata) e techno trance (più fisica e violenta).
Nulla vieta dunque di pensare che, per capacità di uscire dagli schemi e dalle convenzioni, la musica da giostre sia stata il vero punk degli anni novanta ed Albertino il suo John Peel (cit.), nulla vieta di sognare un pochino mentre la ascolti. Ora la dance da superclassifica non è più così, ed in tempi in cui anche ciò che definiscono indie è parte integrante del mainstream, perché non cercare di battere una certa cultura ormai imperante prestando orecchio a dei Culture Beat qualsiasi?