09 settembre 2009

I DON'T WANT FUCKIN' ALLEANZE ELETTORALI WITH PIERFERDINANDO CASINI

Magliette aderenti. Pantaloni ancor più aderenti. Colori fluo. Eyeliner in alcuni casi. Capelli pittati di colori strani. Vibrazioni positive. Omosessualità ostentata (e ben venga, tra l'altro). Droga, in certi casi. Musica unz unz ma non troppo. Sintetizzatori bzz bzz ed a volte pure troppo. In poche parole a Bologna per il concerto di Peaches sembrava di essere nel 2001, solo che non era il 2001 perché purtroppo oggi siamo nel 2009 (anche se non sembra).

Ma andiamo con ordine. Di fronte ad un pubblico numeroso che non ti saresti mai aspettato hanno aperto il concerto gli italo-francesi Discofunken e la serata ha apparentemente preso una brutta piega. I Discofunken sono la reale dimostrazione di quanto i Justice abbiano (involontariamente) fatto male alla musica dance (o a certa dance): i soliti sintetizzatori distortissimi, i soliti beats secchi e perentori, il solito basso tamarr-funk d'accatto, il solito cantato che c'è e non c'è. Idee zero, voglia di rischiare ed innovare zero. I Justice erano in buona fede, questi qui no perché provano a seguirne la scia sperando di ripetere il colpo riuscito ai Bloody Betroots e fare un pochino di soldini, che certi vizi costano. Purtroppo per loro i Justice sono altro, e i Daft Punk del capolavoro disco-truffa Human After All sono e saranno sempre inarrivabili. Partono le basi e i Discofunken cazzeggiano, ogni tanto una chitarra o un basso fanno capolino, lo sparuto gruppo di quindicenni sembra gradire ma l'immagine che rimane nitida nella memoria è quella del beatmaker del duo che balla e si contorce a torso nudo finendo per somigliare ad un qualcosa che sta tra il Mr. Lui protagonista degli stacchetti che introducevano i cartoni animati sulle reti Mediaset e il sommo Mauro Repetto ballerino degli 883. Purtroppo oggi siamo nel 2009, ma servirebbe una moratoria sui progetti dance che cercano disperatamente suonare così.

E poi, Peaches. Nella band che l'accompagnava credo di aver riconosciuto suo marito Gonzales alla batteria, e solo per questo (ma anche per l'entrata sul palco accompagnata dalla sigla dell'A-Team) Peaches va rispettata. Se poi ci si mettono anche abbigliamenti impossibili, una presenza scenica come ultimamente se ne vedono poche (almeno a certi livelli), musica che riesce a coinvolgere anche il più scettico dei presenti (ovvero il sottoscritto), crowd surfing nel vero senso della parola, una finta caduta con conseguente finto infortunio e quando meno te l'aspetti relative pose alla Ozzy Osbourne con sangue che cola dalla bocca il concerto diventa uno di quelli da ricordare e la serata si risolleva all'istante. Peaches fa la sua cosa, continua a suonare la stessa roba senza voler scimmiottare nessuno o voler cavalcare l'onda, continua a lanciare i suoi (importanti) messaggi, continua a scegliere la provocazione come arma, e fa bene. È troppo vecchia Peaches per fare questo? Non si è mai troppo vecchi per essere se stessi. Aveva più senso vederla nel 2001? In parte sì, ma non è mai troppo tardi per scoprirla e comunque vale sempre la pena di vederla in concerto anche se i tempi son cambiati e l'electroclash è passato di moda (ma poi tanto lei se ne è sempre sbattuta delle mode e comunque in ambito electroclash è sempre stata considerata una delle seconde linee, dunque parlare di moda non ha troppo senso).

Magari il messaggio potrà sembrare trasmesso con meno convinzione di un tempo, ma è solo un'apparenza. E la musica resta sempre quel pasticcio kitsch senza vergogna che tanti sederi ha fatto muovere nel corso degli ultimi otto anni e che, se andiamo avanti così e soprattutto se le nuove leve si chiamano Discofunken, tanti ne farà muovere in futuro. Alla fine quello che conta davvero è questo, muovere il culo. Tutto il resto è game over.

(Indie For Bunnies)

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